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A T H E N A


Fortunato Zocchi

L'Arte della Mistificazione e la Mistificazione nell'Arte di Lautréamont (1962)

La Similitudine nei Chants de Maldoror (1967)

Le Paysage dans les Chants de Maldoror (1974)

Il "Bestiaire" di Lautréamont (1976)

Lautréamont

 

FORTUNATO ZOCCHI

L'Arte della Mistificazione e la
Mistificazione nell'Arte di Lautréamont

Estratto da "AEVUM"
Anno XXXVI - Fasc. 1-2 - 1962
Piazza S. Ambrogio, 9 - Milano

 

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        Il "caso Lautréamont", scrive Italo Siciliano, è restato dov'era nel 1890, e sempre nell'enigma, per la resistenza del nostro spirito ad ammettere la realtà della Sfinge (Note 1). Ed a ragion veduta. Chè il tentar d'indagare nell'intrico confuso de Les Chants de Maldoror, appare impresa ardua e quasi assurda. Ed a sincerarcene basterà leggere quanto è stato scritto su Lautréamont, per trovavi i giudizi più disparati, le affermazioni più diverse, le interpretazioni più svariate.
        Non ci proponiamo dunque di esaminare in questa sede le visioni spaventose, le immagini apocalittiche, il discorrer di tono profetico o il ritmo assillante di frasi e parole ripetute in forma ossessiva, in cui traspare la logica di un pazzo e il gusto del paradosso. Poichè già numerose interpretazioni abbiamo, tutte valide perchè tutte possibili, anche se non per questo rispondenti a un criterio di oggettività. Una cosa è certa: che ne Les Chants de Maldoror si esprime l'autentico Lautréamont la cui poesia raggiunge qui la più completa pienezza ed efficacia. A volte si ha la netta impressione di sentirvi un elemento di mistificazione; ma se mistificazione c'è, essa risponde ad un'intima sollecitazione poetica, per cui l'una si confonde e quasi si annulla nell'altra, ed è essenza stessa dell'opera.
        Si è giustamente detto che in Lautréamont "è impossibile distinguere dove finisca la sincerità e cominci la mistificazione" (Note 2), ma forse ci si è maggiormente preoccupati di esprimere un giudizio tratto da impressioni nate dalla lettura dei Chants, che non di indagare a fondo il problema, alla luce dei documenti. E quelli di cui disponiamo, purtroppo sono cosi esigui, che ci si chiede se basti rifarsi ad essi, per approdare a qualcosa di certo. Ma tant'è: non avendo altro a disposizione, dobbiamo servirci di quel che è giunto a nostra conoscenza, sia pur con riserva.
        Della vita di Isidore Ducasse, in arte Lautréamont, ben poco si sa, soprattutto per quel che concerne il suo soggiorno a Parigi. Nè si può dedur molto dalle lettere pervenuteci, che possa chiarire il mistero del giovane studente, il qual in una squallida stanza di rue Notre-Dame-des-Victoires, si dava da fare, non tanto a portare a termine i suoi studi, quanto a cercare di farci strada nel regno del Parnaso. Tale almeno ci sembra la sua costante e principale preoccupazione, scorrendo le poche lettere che di lui abbiamo, indirizzate al banchiere Durasse ed a M Verbroekhoven, socio dell'editore Lacroix.
        Il 9 novembre 1868, il Ducasse, dopo aver pubblicato il primo de Les Chants de Maldoror, al destinatario di cui non si conosce il nome, ma che doveva essere certo un direttore o quanto meno un redattore di giornale, scrive: "Auriez-vous la bonté de faire la critique de cette brochure dans votre estimable journal... Je dois publier le IIe Chant à la fin de ce mois-ci chez Lacroix". Primo indice dunque, in nostro possesso, di una preoccupazione pratica e forse ancor più di un'ambizione letteraria. Confermata quest'ultima dalla chiusura stessa del Io canto: "Ne soyez pas sévère pour celui qui ne fait encore qu'essayer sa lyre: elle rend un son si étrange! Cependant, si vous voulez être impartial, vous reconnaîtrez déjà une empreinte forte, au milieu des imperfections. Quant à moi, je vais me remettre au travail, pour faire paraître un deuxième chant, dans un laps de temps qui ne soit pas trop retardé. La fin du dix-neuvième siècle verra son poète... " (Note 3).
        In un altro frammento di lettera del 22 maggio 1869 si possono rilevare preoccupazioni di carattere finanziario. Nè il tono della lettera è molto distante da quello di certa corrispondenza intercorsa tra Baudelaire ed il notaio Ancelle. Indirizzandosi al banchiere Durasse, Lautréamont chiede d'essere avvisato nel caso arrivassero fondi dall'America, dove viveva il padre. E benchè il motivo non sia molto chiaro, si può intuire che il banchiere doveva aver ricevuto istruzioni dal padre di Lautréamont, per quanto concerneva il versamento di eventuali somme al figlio
        Chiaro dunque (del resto troveremo testimonianza in un'altra lettera), che la vita di Isidore Ducasse a Parigi, dipendeva dai finanziamenti paterni, e che il padre si preoccupava molto probabilmente di vedere suo figlio far qualcosa.
        Il 2 ottobre dello stesso anno, in una lettera al socio di Lacroix, dopo aver espresso in alcune righe ormai famose la sua giustificazione letteraria alla composizione dei Chants (Note 4), con passaggio improvviso, Lautréamont si preoccupa della vendita del suo libro, ma soprattutto "que le service de la critique soit fait aux principaux lundistes". "Je vous en serai reconnaissant, scrive il nostro, parce que, si la critique en disait du bien, je pourrais, dans les éditions suivantes, retrancher quelques pièces trop puissantes. Alors donc ce que je désire avant tout, c'est être jugé par la critique, et, une fois connu, ça ira tout seul".
        Ed ancora questa assillante, ostinata preoccupazione di attirare l'attenzione della critica, ritorna il 27 ottobre dello stesso anno in un'altra lettera a M. Verbroeckhoven. Ernest Naville, un corrispondente dell'Institut de France, aveva tenuto delle conferenze riunite poi in un volume su Le problème du mal, citando filosofi e poeti maledetti (Note 5). Lautréamont decide di mandargli un esemplare dei suoi Chants, perchè "... dans les éditions suivantes il pourra parler de moi, car je reprends avec plus de vigueur que mes prédécesseurs cette thèse étrange et son livre (...) me fera connaître indirectement en France. Cest une affaire de temps". Sia dunque mosso da ambizioni letterarie (Note 6) o da preoccupazioni di carattere finanziario (e force le due cose sono strettamente unite e dipendenti), è certo che Isidore Ducasse vuol raggiungere la notorietà.
        Quale che sia il loro contenuto o il loro valore letterario, Les Chants de Maldoror sono pubblicati. Il comte di Lautréamont è in trepidante attesa del giudizio della critica, che però lo ignora, salvo qualche piccola recensione di compiacenza. Egli sa di aver oltrepassato la misura, (non aveva forse espresso la possibilità di "retrancher quelques pièces trop puissantes"?) e pur tuttavia sembra nutrire fondate speranze.
        Fors'è che, dopo aver peregrinato d'editore in editore, il fatto di vedere finalmente la sua opera data alle stampe da un coraggioso editore quale Lacroix, lo fa bene sperare. Non erano forse di moda i "poètes maudits"? E non aveva forse riscontrato successo la rivolta romantica che egli si vantava di aver portato oltre tutti limiti della logica, della decenza e della stessa spregiudicatezza?
        Ma, quasi che il silenzio della critica non bastasse, Lacroix si rifiutava all'improvviso di mettere in vendita i Chants de Maldoror. Certe tonalità troppo forti lo avevano spaventato. Ed è lo stesso Lautréamont a darcene notizia in una sua lettera (Note 7): "J'ai publié un ouvrage de poésie chez M. Lacroix (B. Montmartre 15). Mais une fois qu'il fut imprimé, il a refusé de le faire paraître, parce-que la vie y était peinte sous des couleurs trop amères, et qu'il craignait le procureur général".
        Tutto da rifare dunque. Le tinte forti in cui Ducasse aveva forse segretamente posto le sue speranze di successo, erano invece state la causa della mancata vendita dell'opera. Ma egli aveva bisogno di denaro, doveva giustificare forse in qualche modo la sua attività al padre che lo finanziava (Note 8). Non aveva tempo da perdere. E poi, rimaneva sempre l'ambizione di volersi affermare in qualche modo. Poichè la via della révolte era fallita, bisognava seguirne un'altra. Si disinteressava dunque completamente, e con una certa incomprensibile facilità, pare, dei suoi Chants, e si accingeva ad un nuovo lavoro.
        Il suo primo fallimento gli fece "ouvrir les yeux". Doveva seguire dunque una altra via, addirittura in antitesi a quella dei Chants.
        E scriveva al suo banchiere: "Je me disais que puisque la poésie du doute ... en arrive ainsi à un tel point de désespoir morne, et de méchanceté théorique, par conséquent, c'est qu'elle est radicalement fausse; par cette raison qu'on y discute les principes et qu'il ne faut pas les discuter: c'est plus qu'injuste. Les gémissements poétiques de ce siècle ne sont que des sophismes hideux. Chanter l'ennui, les douleurs, les mélancolies, la mort, l'ombre, le sombre, etc., c'est ne vouloir à toute force regarder que les puérils revers des choses. (...) Voilà pourquoi, j'ai complètement changé de méthode, pour ne chanter exclusivement que l'espoir, l'espérance, le calme, le bonheur, le devoir..."
        A prima vista, questa sua giustificazione letteraria non ha nulla di sospetto, soprattutto in quanto essa è diretta ad un banchiere; ma vien poi subito spontaneo di chiedersi se, proprio per questo non sia invece anche più sospetta. Dobbiamo tener conto infatti che le funzioni del signor Durasse, non si limitavano, a quel che pare, a passare il denaro ricevuto dall'America, ma si estendevano con ogni probabilità a quelle di intermediario tra il padre e il figlio.
        Per cui Lautréamont doveva trovare una giustificazione seria e plausibile al suo fallimento, onde poter trovare ancor credito per il nuovo lavoro intrapreso. E tale sospetto si rafforza in noi quando, dopo questa giustificazione di carattere letterario, egli esprime a chiare lettere le sue necessità di carattere pratico (Note 9): Mon volume ne sera terminé que dans quatre ou cinq mois. Mais en attendant, je voudrais envoyer à mon père la préface, qui contiendra soixantes pages chez Lemerre. Cest ainsi qu'il verra que je travaille et qu'il m'enverra la somme totale du volume à imprimer plus tard". E quasi questo non bastasse: "Je viens, Monsieur, vous demander, si mon père vous a dit que vous me delivrassiez de l'argent, en dehors de la pension, depuis le mois de novembre et de décembre. Et, en ce cas, il aurait fallu 200 francs, pour l'impression de la préface que je pourrai envoyer ainsi, le 22 à Montevideo" (Note 10).
        Dall'esame dunque di queste lettere, dovremmo dedurre che l'improvviso cambiamento di rotta da Les Chants de Maldoror alle Poésies, possa avere e forse ha un sottofondo di carattere pratico. Che non influisce, è vero, sulla originalità o sulla validità letteraria dell'opera, ma che comunque potrebbe costituire uno dei motivi, forse il meno importante o il meno determinante, se si vuole, ma comunque il solo documentabile di quel sospetto di mistificazione cui avevamo accennato più sopra. Non si potrebbe infatti pensare ad un esaurimento della révolte? Per Rimbaud si doveva pur verificare un fenomeno simile, altrettanto inesplicabile. L'autore delle Illuminations, adattandosi alla vita pratica, dava un addio alla sua poesia ed accettava, come uomo quella realtà che come poeta aveva rifiutato Lautréamont invece volle continuare nelle Poésies, sotto l'apparenza dell'ordine, quei paradossi che erano già stati il leitmotiv della sua révolte. L'ipotesi vale per entrambi, ma si tratta soltanto di una ipotesi Ci limiteremo dunque ad accettare quei dati di fatto che abbiamo visto più sopra, secondo i quali il voltafaccia di Lautréamont è per lo meno sospetto di insincerità. Ma veniamo all'opera.
        I primi tre canti sono dunque espressione "outrée" d'una rivolta diversamente interpretabile, in quanto disordinata e caotica (Note 11) Ci sono però anche qui delle espressioni che lasciano perplessi Infatti, quando si legge: "Le frère de la sangsue marchait à pas lents dans la forêt..." oppure "... ni moi ni les quatre pattes de l'ours boréal n'avons pu trouver le problème de la vie...", si ha proprio l'impressione d'essere gabbati. Poichè tali immagini nulla hanno in comune col concetto di rivolta, col gusto dello scandalo o con la gioia sadica del macabro. Si direbbero piuttosto immagini ad effetto, destinate a colpire il lettore ed a lasciarlo sorpreso. Tanto più che sono messe lì staccate e a sè stanti, senza nesso alcuno con la trattazione. Nè insisteremo oltre in proposito, in quanto il discorso ci condurrebbe lontani. Diremo solo che anche questi dettagli (che non sono poi forse nemmeno tanto privi di importanza), non fanno che rafforzare il nostro sospetto sulla malafede di Lautréamont.
        E quando si arriva al quarto canto, allora il sospetto si fa quasi certezza, e ci si chiede cosa mai voglia dire tutto quell'effluvio disordinato di parole buttate là, senza senso comune, tanto che ad un certo punto l'autore stesso sente il bisogno di scrivere: "Si le lecteur trouve cette phrase trop longue, qu'il accepte mes excuses; (...) Mes raisonnements se choqueront quelquefois contre les grelots de la folie et l'apparence sérieuse de ce qui n'est en somme que grotesque... " (Note 12).
        Il secondo paragrafo, iniziato con un'immagine paradossale (Note 13), si va vieppiù facendo confuso; ed è tutta una farandola di parole e di frasi il cui tono cade rapidamente nel banale: "Pour tuer les mouches, voici la manière la plus expéditive, quoi que ce ne soit pas la meilleure: on les écrase entre les deux premiers doigts de la main... " (Note 14).
        Siamo ben lontani dalle grandiose, deliranti immagini dei primi tre canti Lautréamont stesso doveva rendersi conto che la mistificazione qui aveva passato i limiti, che aveva scoperto troppo apertamente il suo gioco; e sospendendo per un momento il suo sragionare, cercava quasi di insinuare il dubbio che, dietro tutto questo vaneggiare, si nascondesse chissà quale verità.. "C'est ainsi que ce que l'inclinaison de notre esprit à la farce, prend pour un misérable coup d'esprit, n'est, la plupart du temps, dans la pensée de l'auteur, qu'une vérité importante, proclamée avec majesté!" (Note 15). Ma per ricadere subito nel paradosso grottesco: "Oh, ce philosophe insensé qui éclata de rire, en voyant un âne manger une figue. (...) Eh bien; j'ai été témoin de quelque chose de plus fort: j'ai vu une figue manger un âne" (Note 16). E si potrebbe continuare a non finire, perchè questo è il tono di tutto il secondo paragrafo del quarto canto. È la stessa tecnica che ritroveremo nelle Poésies: un giuoco di parole, un divertirsi ad affermare per negare subito dopo; è la tecnica dell'assurdo, del nonsenso. Così che ci si chiede se piuttosto l'autore non abbia ormai esaurito il suo repertorio, non tanto di contenuto, che è poi, come abbiamo detto, lo stesso della révolte romantica, ma soprattutto di immagini. E verrebbe fatto di pensare che la fantasia evocatrice del Nostro sia "épuisée", che il suo genio demoniaco abbia "tari sa source", quando non avessimo un'improvvisa ripresa a portarci tra le visioni oniriche e fantastiche proprie dei primi tre canti. O è stata forse una improvvisa "défaillance", cui a fatto seguito un'improvvisa ripresa? Non sarebbe forse fuor di luogo il pensarlo, soprattutto se teniamo conto dell'importante scoperta fatta nel 1952 da Maurice Viroux (Note 17), il quale, messo in sospetto dalla perfetta conoscenza di storia naturale rivelata nei Chants, dopo accurate e laboriose ricerche, trovò che ben sei passaggi di descrizioni di animali ed in particolare di uccelli, erano stati copiati quasi integralmente da Lautréamont, ed interpolati nel quinto canto.
        Ed il plagio è così letterale, anche se le trasposizioni sono a volte ingegnose, che ogni possibilità di dubbi sulla malafede del Nostro, svanisce e si dissolve. Il baro è stato colto con le mani nel sacco. La mistificazione si fa dunque tanto palese da non poter essere discussa; la frode è così evidente che a buon diritto si può pensare non sia la sola. Perchè infatti questo plagio, che non era indispensabile allo sviluppo dell'opera? Perchè questa interpolazione di brani presi di sana pianta da altri? Aveva forse bisogno di riempire in qualche modo dei vuoti? Non aveva più nulla da dire e si aggrappava a qualcosa da cui partire per le sue strane elucubrazioni? E tuttavia così non sembrerebbe, se teniamo presente il tono ancora profetico e il balenare di scorci superbi nell'opera. E pur non aveva torto forse Remy de Gourmont, quando asseriva che verso la fine del volume "... on sent que la conscience s'en va, s'en va" (Note 18). Possiamo dunque pensare alla pazzia in colui che tanto abilmente sapeva simulare, che così ingegnosamente aveva interpolato passaggi da cui continuare le sue similitudini? O sospetteremo invece che altri plagi si nascondano? Le risposte agli interrogativi potrebbero essere molte; ma quali che esse siano, non toglierebbero nulla alla gravità della mistificazione, in questo caso così evidente.
        D'altro canto, la contraddizione (anche se Baudelaire aveva sostenuto il diritto del poeta a contraddirsi, come vuole Breton) (Note 19), ha per lo meno qualcosa in comune con l'insincerità. Ed il principio della contraddizione è tutto in Lautréamont. Lo si vedrà anche nelle Poésies. Aveva pur affermato che i primi cinque canti erano il frontespizio della sua opera, "le fondement de la construction, l'explication préalable de (sa) poétique future", salvo poi a smentirsi qualche mese dopo, come è riscontrabile dalla sua corrispondenza e si può rilevare nelle sue Poésies.
        Per quanto concerne il sesto canto, esso non va esente da quegli atteggiamenti che caratterizzavano il secondo paragrafo del canto quarto, mettendo ancora una volta in evidenza come il Lautréamont si prenda gioco del lettore. Che dire infatti quando il Nostro, interrompe il discorso (serio del resto o preteso tale), per confessarci candidamente: "... je ne sais plus ce que j'avais l'intention de dire, car je ne me rappelle plus le commencement de la phrase" (Note 20)?
        Pazzo o mistificatore? E subito qualche riga sotto, eccolo annunciarci in gran serietà: "je vais d'abord me moucher, parce que j'en ai besoin; et ensuite, puissamment aidé par ma main, je reprendrai le porte-plume que mes doigts avaient laissé tomber". Ed è ancora una volta tutto un farneticar di parole e pensieri che si susseguono senza alcun nesso logico.
        Procedimento tipico della scrittura automatica che tanto entusiasmo ha suscitato nei surrealisti. Che nondimeno può essere espressione poetica, se si vuole, ma fin dove sincera?
        E fin qui per Les Chants.
        In seguito, come abbiamo visto, nascevano difficoltà di carattere pratico. Ed ecco Lautréamont cambiar bandiera. Scriveva dunque nelle Poésies: "Je veux que ma poésie puisse être lue par une jeune fille de quatorze ans" (Note 21). Sarebbe dunque rientrato nei limiti della decenza, nell'ordine, nella tradizione? Forse per quanto riguarda le immagini, l'assenza del macabro e del sadico che avevano caratterizzato gli Chants. Ma il paradosso continuava, l'ordine era soltanto apparente, la tradizione cui egli affermava di riallacciarsi (Note 22) non poteva necessariamente rivivere in lui. Del resto, perchè mai questo improvviso voltafaccia? Che cosa mai aveva di nuovo da dire? Quale messaggio ci doveva trasmettere? Ancora una volta avrebbe giuocato con le parole; ancora una volta avrebbe continuato sulla strada dell'assurdo e della contraddizione.
        È noto che nelle Poésies egli si divertì ad invertir massime celebri di Vauvenargues, di La Rochefoucauld, di Pascal ed altri (Note 23). Voleva dimostrare forse che scombinando delle massime, invertendo l'ordine delle parole, altre se ne possono ricavare altrettanto vere? Ma allora le sue Poésies non hanno senso (almeno per quanto riguarda il contenuto); e non sarebbe illecito pensare che egli aveva soltanto bisogno di buttar nero su bianco, a dimostrazione della sua attività. Il sospetto nato dall'esame della corrispondenza troverebbe dunque una conferma e la mistificazione apparirebbe abbastanza chiara. Ma se anche non volessimo tenere in considerazione questo fatto, rimarrebbe la contraddizione nel seno stesso delle Poésies, che è ancora mistificazione. Perchè non si può sostenere che "On ne peut juger de la beauté de la vie que par celle de la mort" (Note 24), per affermare due pagine dopo che "On ne peut juger de la beauté de la mort que par celle de la vie" (Note 25). Né avevamo bisogno di Lautréamont per sapere che "Rien n'est faux qui soit vrai; rien n'est vrai qui soit faux" (Note 26). Ed è uno strano modo quello di "chanter l'espoir" affermando che "Le désespoir est la plus petite de nos erreurs" (Note 27). E saggi di questo genere se ne potrebbero citare a piacere. È la logica dell'assurdo. È pur vero che Lautréamont aveva scritto: "Une logique existe pour la poésie. Ce n'est pas la même logique que celle de la philosophie. Les philosophes ne sont pas autant que les poètes. Les poètes ont le droit de se considérer au-dessus des philosophes" (Note 28). Ma quale sia questa non è ben chiaro, nè il poeta ce lo spiega. Evidentemente si tratta di una logica paradossale.
        Nel primo paragrafo delle Poésies tutto sembrerebbe in regola, a dire il vero: un attacco feroce al romanticismo, al dubbio, alla malinconia, alla disperazione, all'anarchia, al disordine. Scriveva infatti: "Toute littérature qui discute les axiomes éternels est condamnée à ne vivre que d'elle même. Elle est injuste. Elle se dévore le foie." (Note 29), condannando quindi implicitamente anche se stesso. Ma poi non rispettava questa sua affermazione e continuava sulla strada del rifiuto, allorchè non riconosceva a Dio (che egli chiama Elhoim), una superiorità sull'uomo. Non scalza forse ancora degli assiomi eterni, allorchè, facendo di ogni erba una fascio, afferma: "Les antéchrists, les anges accusateurs, les peines éternelles, les religions, sont le produit du doute" (Note 30)? O ancora: "Le malheur n'est ni dans nous, ni dans les créatures, il est dans Elhoim" (Note 31). E mente con piena consapevolezza, pur avvertendo la grossolanità del suo paradosso, quando afferma: "L'homme est le dépositaire du vrai" o "L'homme est certain de ne pas se tromper" (Note 32).
        Per cui, nel caos di questa produzione, c'è solo un'unità che possa collegare le Poésies agli Chants: la continuazione dell'assurdo. E tutti quei sofismi che costituiscono il nocciolo della sua pre-poetica, trovano il loro contrario in Maldoror, trovano nell'inversione di massime celebri il loro motivo d'essere. Sì che i valori di prima vengono sovvertiti ed invertiti per ricostituire un ordine nuovo, che ordine non è, perchè non c'è logica, non c'è tessuto, non c'è incastellatura che regga le sovrastrutture.
        Potremo anzi applicare ad Isidore Ducasse, quelle stesse parole che Lautréamont doveva scrivere nelle Poésies: "Un pion pourrait se faire un bagage littéraire en disant le contraire de ce qu'on dit les poètes de ce siècle. Il remplacerait leurs affirmations par des négations. Réciproquement" (Note 33).
        Il che egli ha fatto e si accingeva ancora a fare.
        Quelle che noi oggi chiamiamo Poésies, non sono in realtà che la prefazione a quel volume di Poésies che egli si riprometteva di scrivere, che quasi certamente non ha mai scritto e che comunque non ci sono pervenute. Azzardato sembrerebbe dunque esprimere giudizi su ciò che egli avrebbe dovuto darci ancora; ma conosciamo le sue intenzioni, i suoi progetti, da una lettera del 21 febbraio 1870 al signor Verbroeckhoeven, in cui scriveva: "Dans un ouvrage que je porterai à Lacroix aux premiers jours de mars, je prends à part les plus belles poésies de Lamatrine, de Victor Hugo, d'Alfred de Musset, de Byron et de Baudelaire, et je les corrige dans le sens de l'espoir; j'indique comment il aurait fallu faire. J'y corrige en même temps six pièces des plus mauvaises de mon sacré bouquin".
        Se dobbiamo credere alle sue parole, egli avrebbe ancora una volta seguito il suo sistema: quello del plagio, sia pur per trarne dei paradossi. Questo "rifare" le poesie di altri "nel senso del bene", non doveva essere altro, con ogni probabilità, che il solito invertir di concetti e di parole; qualcosa di molto affine alla prefazione da lui scritta. A tutto questo si aggiunga il fatto che il poeta stesso, alla fine dei suoi Chants, aveva scritto. "Si la mort arrête la maigreur fantastique de mes épaules, employées à l'écrasement lugubre de mon gypse littéraire, je veux au moins que le lecteur en deuil puisse dire: "Il faut lui rendre justice. Il m'a beaucoup crétinisé. Que n'aurait il pas fait, s'il eût pu vivre d'avantage. C'est le meilleur professeur d'hypnotisme que je connaisse" (Note 34). E professore d'ipnotismo fu infatti, con la fantasmagoria allucinante delle sue immagini che, malgrado il plagio, malgrado la mistificazione, assurgono a poesia balenante di chiaroscuri nei Chants de Maldoror, lui che volle "peindre une folie dont l'incohérence est plus belle et plus sage que la raison moyenne" (Note 35).
        Sì che la mistificazione, quand'essa c'è evidente e palese, non è che il mezzo di cui Lautréamont si serve per costruire il suo mondo in cui la mistificazione, sopraffatta dall'arte, con essa si immedesima e diventa essa stressa espressione poetica.

 

NOTES

        (Note 1). I. Siciliano, Romanticimo Francese, Venezia, ed. Goliardica, 1955, pp 227-244.

        (Note 2). M. Praz, La morte, la carne e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, Sansoni, 1930, p 164.

        (Note 3). I. Ducasse, Les Chants de Maldoror, Paris, éd. du Centenaire, 1946, pp 87-88.

        (Note 4). "J'ai acheté le Mal comme on fait Mickiewickz, Byron, Milton, Southey, A. de Musset, Baudelaire, etc. Naturellement, j'ai un peu exagéré le diapason pour faire du nouveau dans le sens de cette littérature sublime qui ne chante le désespoir que pour opprimer le lecteur, et lui faire désirer le bien comme remède..."

        (Note 5). È lo stesso Lautréamont ad informarcene nella citata lettera del 27 ottobre 1869.

        (Note 6). Ed a questo proposito sarà utile tener presente il passaggio delle Poésies in cui egli afferma: "La modestie est si naturellement dans le coeur de l'homme, qu'un ouvrier a soin de ne pas se vanter, veut avoir ses admirateurs. Les philosophes en veulent. Les poètes surtout! Ceux qui écrivent en faveur de la gloire, veulent avoir la gloire d'avoir bien écrit. Ceux qui le lisent veulent avoir la gloire de l'avoir lu. Moi, qui écris ceci, je me vante d'avoir cette envie. Ceux qui le liront se vanteront de même" (p 376).

        (Note 7). Lettera del 12 marzo 1870 a M. Durasse.

        (Note 8). Nè questo sospetto è nuovo; chè già lo aveva avvertito Valéry Larbaud, quando sostenne che la Prefazione alle Poesie non era altro che un mezzo per ottenere dal padre una condiscendenza che si traducesse in invio di denaro Del resto l'ultima lettera di Lautréamont, abbastanza esplicita al proposito, non può lasciar dubbi in merito.

        (Note 9). Lettera di I. Ducasse a M. Durasse banchiere, in data 12 maggio 1870.

        (Note 10). Se dobbiamo anzi credere a Camus, "des romantiques à Lautréamont il n'y a donc pas de progrès réel, sinon dans le ton" (L'homme révolté, Paris, Gallimard, 1951, p. 109).

        (Note 11). I. Ducasse, Les Chants de Maldoror, op cit, Chant quatrième, p. 203.

        (Note 12). Deux piliers qu'il n'était pas difficile et encore moins possible de prendre pour des baobabs, s'apercevaient dans la vallée, plus grands que deux épingles (Ch. de M., op cit, p. 201).

        (Note 13). Les Chants de Maldoror, op cit, p. 203.

        (Note 14). Ibid., p. 204.

        (Note 15). Ibid., p. 204.

        (Note 16). M. Viroux, Lautréamont et le Docteur Chenu, in "Mercure de France", 10 dicembre 1952, pp. 632-642. Rimandiamo a questo articolo per un eventuale raffronto di testi e per i dettagli. Ricorderemo soltanto che Lautréamont non ha copiato neppure direttamente da Buffon, ma dalla Encyclopédie d'histoire naturelle, par le Docteur Chenu, Paris, Maresy et C. Editeurs, 1850, 1860.

        (Note 17). R. de Gourmont, Le livre des masques, Paris, Mercure de France, 1921, p. 140.

        (Note 18). A. Breton in "Littérature", décembre 1929.

        (Note 19). I. Ducasse, Les Chants de Maldoror, op. cit., p. 290.

        (Note 20). I. Ducasse, Poésies, op. cit., p. 350.

        (Note 21). "C'est ainsi que je renoue avec les Corneille et les Racine de la chaîne du bon sens et du sang froid..." Lettera a M. Durasse, in data 12 marzo 1870.

        (Note 22). Vedasi per qualche raffronto: F. Giolli, Lautréamont, Milano, Rosa e Ballo Editori, 1945, p. 357. Tra l'altro osserveremo che il "Vous qui entrez, laissez tout désespoir" (op. cit. p. 357), non è altro che l'inversione del celebre verso dantesco.

        (Note 23). I. Ducasse, Poésies, cit., p. 379.

        (Note 24). Ibid., p. 381.

        (Note 25). Ibid., p. 378.

        (Note 26). Ibid., p. 372.

        (Note 27). Aveva però già detto: "Quelques philosophes sont plus intelligents que quelques poètes" (p. 367) ed ancora: "La poésie ne pourra pas se passer de la philosophie. La philosophie pourra se passer de la poésie" (p. 368). Sempre in contraddizione con se stresso, dunque. Non aveva forse anche detto: "Mettez une plume d'oie dans la main d'un moraliste qui soit un écrivain de premier ordre. Il sera supérieur aux poètes" (p. 368), dopo aver affermato qualche pagina prima: "Je ne connais pas de moraliste qui soit poète de premier ordre" (p. 370)?

        (Note 28). I. Ducasse, Poésies, op. cit., p. 353.

        (Note 29). Ibid., p. 357.

        (Note 30). Ibid., p. 375.

        (Note 31). Ibid., p. 360.

        (Note 32). Ibid., p. 359.

        (Note 33). I. Ducasse, Les Chants de Maldoror, Chant sixième, op. cit., p. 322.

        (Note 34). R. de Gourmont, Le livre des masques, Paris, Mercure de France, 1921, p, 146.

        (Note 35).

FORTUNATO ZOCCHI (zocchi@netsys.it)

 

        Ce texte a été dactylographié et corrigé par Virginie Durgnat et Laetitia Gerber.
        Il a, en outre, été relu et corrigé par l'auteur, Fortunato Zocchi.